Una settimana dopo esser stati su Beyond con la Giulia e Andrea, io e David abbiamo ancora voglia (bisogno?) di arrampicare.
Ci decidiamo per la Nord dei Grands Charmoz, una parete che sogno da dieci anni e resa mitica dai duri bivacchi di Welzenbach e Merkl che si salvarono dopo quattro giorni di tempesta grazie ai nervi d'acciaio e la calma poi David mi fa notare che da qui sono passati anche Heckmair, Kroner e Herzog, eroi d'altri tempi, infine Twight da solo nel 1984 vive una storia da brivido che racconta nel primo capitolo delle sue Confessioni.
Siamo carichi e partiamo alle quattro di mattina da casa per raggiungere Chamonix dalla Svizzera evitando così il salasso delle Autostrade valdostane e del tunnel del Bianco. Saliamo con il trenino di Montenvers poi camminiamo sulla Mer de Glace dove la via attraverso il ghiaccio è segnata... Ora solo tracce di camosci che ci accompagnano su per la morena fino al cospetto dell'impressionante parete.
A mezzogiorno attacchiamo su ripide placche ghiacciate e severe che ci chiariscono subito l'andazzo della via. Saliamo per nevai e goulotte seguendo la verticale della cima fino al calar della luce, siamo sotto al grande nevaio centrale, ormai è buio pesto e ricaviamo una piccola cengia nella neve. Passiamo una notte in allegria, risparmiamo sul materiale ma non sui piaceri ed è per questo che dallo zaino saltano fuori due latte di birra, pane, porchetta, parmigiano, uvette, biscotti, noodels, cioccolata e anche da fumare, ci godiamo allora il bivacco ammirando le grandi pareti che ci circondano e le stelle cadenti.
Le ore di buio ormai sono tante e dopo esserci sgranchiti ripartiamo con la prima luce.
Alcune belle lunghezze e raggiungiamo il grande nevaio, lo superiamo con fatica. Ora il catino terminale è sopra le nostre teste e sembra strapiombante. Salgo sull'esile linea di ghiaccio che solca il canale, le croste di neve ghiacciata e le rocce mobili non sono rassicuranti, le protezioni poche. Seguono altri tiri, ingaggiosi dove impieghiamo tutte le forze ed il tempo. L'ambiente è di prima classe, la parete severa e ci sentiamo completamente isolati in un posto fantastico. Alcune volte la neve non tiene e le picche grattano sulla roccia, la paura sale e il corpo viene scosso da brividi primitivi. Le ore che passiamo nel freddo e nell'ombra a lottare su queste rocce ghiacciate mi fanno pensare alle interminabili attese di Welzenbach nella tempesta annusando la morte nel 1931 senza le nomic, senza il jetboil, senza il primaloft, senza il gore tex ma con una volontà d'acciaio e un amore per l'Avventura totale. Il buio ci coglie sull'ultimo tiro, un traverso su neve in discesa che ci permette di uscire dalla parete. Siamo consci di essere solo a metà dell'opera in quanto la discesa fino a Chamonix non è per nulla banale. Facciamo delle doppie giù per ripidi diedri e pilastri, in fondo vediamo il bianco lenzuolo del ghiacciaio squarciato da crepacci ancora più neri del buio. Ci caliamo per tanti metri senza sapere bene dove ci porterà la prossima doppia, non vediamo niente, non conosciamo la zona e la relazione recita un'inutile e fastidiosa informazione:"Tre doppie da 30 metri poi canale da disarrampicare." Forse siamo su un'altra montagna... Mi calo lento ma regolare con la testa che gira puntando il fascio luminoso della frontale alla ricerca della sosta, all'improvviso mi manca la terra sotto i piedi e immediatamente piombo giù e rimango appeso alle corde con il corpo a penzoloni nel crepaccio terminale, ne esco sbracciando tra la neve e le labbra di ghiaccio, sono scosso e ormai stanco ma felice di aver raggiunto la base, è mezzanotte. Iniziamo a scendere sul ghiacciaio, aggiriamo scure voragini, disarrampichiamo muri di ghiaccio e facciamo anche un abalakov per superare una ripida fascia che finalmente ci fa uscire dal tormentato ghiacciaio. Ora sotto alla neve sfondiamo nei blocchi della morena, avanziamo meccanicamente puntando le luci del paese, abbiamo perso il senso del tempo, camminiamo per alcune ore nel buio giù per il bosco e seguendo i binari della ferrovia arriviamo alla macchina alle due di notte. Siam giù, è fatta, sono devastato ed esaltato, tutto questo mi piace. Un'avventura. Un sogno.
Dopo una pausa nei cessi riscaldati del parcheggio, mi metto al volante per un viaggio interminabile tra le montagne e tra i mostri che abitano le strade di notte, un viaggio nel tempo dal quale mi sveglio entrando a Milano con l'alba che mi acceca. Posteggio l'auto cinquantuno ore dopo averla presa, salgo le scale e mi lascio andare.
"Stavo affogando , ma poi ho cominciato a nuotare.
Stavo andando giù, ma poi ho cominciato a farcela".
Ci decidiamo per la Nord dei Grands Charmoz, una parete che sogno da dieci anni e resa mitica dai duri bivacchi di Welzenbach e Merkl che si salvarono dopo quattro giorni di tempesta grazie ai nervi d'acciaio e la calma poi David mi fa notare che da qui sono passati anche Heckmair, Kroner e Herzog, eroi d'altri tempi, infine Twight da solo nel 1984 vive una storia da brivido che racconta nel primo capitolo delle sue Confessioni.
Siamo carichi e partiamo alle quattro di mattina da casa per raggiungere Chamonix dalla Svizzera evitando così il salasso delle Autostrade valdostane e del tunnel del Bianco. Saliamo con il trenino di Montenvers poi camminiamo sulla Mer de Glace dove la via attraverso il ghiaccio è segnata... Ora solo tracce di camosci che ci accompagnano su per la morena fino al cospetto dell'impressionante parete.
A mezzogiorno attacchiamo su ripide placche ghiacciate e severe che ci chiariscono subito l'andazzo della via. Saliamo per nevai e goulotte seguendo la verticale della cima fino al calar della luce, siamo sotto al grande nevaio centrale, ormai è buio pesto e ricaviamo una piccola cengia nella neve. Passiamo una notte in allegria, risparmiamo sul materiale ma non sui piaceri ed è per questo che dallo zaino saltano fuori due latte di birra, pane, porchetta, parmigiano, uvette, biscotti, noodels, cioccolata e anche da fumare, ci godiamo allora il bivacco ammirando le grandi pareti che ci circondano e le stelle cadenti.
Le ore di buio ormai sono tante e dopo esserci sgranchiti ripartiamo con la prima luce.
Alcune belle lunghezze e raggiungiamo il grande nevaio, lo superiamo con fatica. Ora il catino terminale è sopra le nostre teste e sembra strapiombante. Salgo sull'esile linea di ghiaccio che solca il canale, le croste di neve ghiacciata e le rocce mobili non sono rassicuranti, le protezioni poche. Seguono altri tiri, ingaggiosi dove impieghiamo tutte le forze ed il tempo. L'ambiente è di prima classe, la parete severa e ci sentiamo completamente isolati in un posto fantastico. Alcune volte la neve non tiene e le picche grattano sulla roccia, la paura sale e il corpo viene scosso da brividi primitivi. Le ore che passiamo nel freddo e nell'ombra a lottare su queste rocce ghiacciate mi fanno pensare alle interminabili attese di Welzenbach nella tempesta annusando la morte nel 1931 senza le nomic, senza il jetboil, senza il primaloft, senza il gore tex ma con una volontà d'acciaio e un amore per l'Avventura totale. Il buio ci coglie sull'ultimo tiro, un traverso su neve in discesa che ci permette di uscire dalla parete. Siamo consci di essere solo a metà dell'opera in quanto la discesa fino a Chamonix non è per nulla banale. Facciamo delle doppie giù per ripidi diedri e pilastri, in fondo vediamo il bianco lenzuolo del ghiacciaio squarciato da crepacci ancora più neri del buio. Ci caliamo per tanti metri senza sapere bene dove ci porterà la prossima doppia, non vediamo niente, non conosciamo la zona e la relazione recita un'inutile e fastidiosa informazione:"Tre doppie da 30 metri poi canale da disarrampicare." Forse siamo su un'altra montagna... Mi calo lento ma regolare con la testa che gira puntando il fascio luminoso della frontale alla ricerca della sosta, all'improvviso mi manca la terra sotto i piedi e immediatamente piombo giù e rimango appeso alle corde con il corpo a penzoloni nel crepaccio terminale, ne esco sbracciando tra la neve e le labbra di ghiaccio, sono scosso e ormai stanco ma felice di aver raggiunto la base, è mezzanotte. Iniziamo a scendere sul ghiacciaio, aggiriamo scure voragini, disarrampichiamo muri di ghiaccio e facciamo anche un abalakov per superare una ripida fascia che finalmente ci fa uscire dal tormentato ghiacciaio. Ora sotto alla neve sfondiamo nei blocchi della morena, avanziamo meccanicamente puntando le luci del paese, abbiamo perso il senso del tempo, camminiamo per alcune ore nel buio giù per il bosco e seguendo i binari della ferrovia arriviamo alla macchina alle due di notte. Siam giù, è fatta, sono devastato ed esaltato, tutto questo mi piace. Un'avventura. Un sogno.
Dopo una pausa nei cessi riscaldati del parcheggio, mi metto al volante per un viaggio interminabile tra le montagne e tra i mostri che abitano le strade di notte, un viaggio nel tempo dal quale mi sveglio entrando a Milano con l'alba che mi acceca. Posteggio l'auto cinquantuno ore dopo averla presa, salgo le scale e mi lascio andare.
"Stavo affogando , ma poi ho cominciato a nuotare.
Stavo andando giù, ma poi ho cominciato a farcela".
Finalmente mi ritorna un po' di invidia! Posto mitico
RispondiEliminaComplimenti! Volevo solo aggiungere alla lista dei "grandi" che hanno fatto la storia di questa parete un tale Hermann Buhl, che la affrontò come "battesimo delle Alpi Occidentali" e sulla quale anch'egli bivaccò in una notte di tempesta. Saluti
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