Le informazioni che riusciamo a raccogliere sono poche e tutte uguali: lasciate perdere! Noi invece partiamo, in tre.
Il Cervino è una delle montagne più famose del mondo, ogni anno viene salito da centinaia di persone per le due vie normali, italiana e svizzera, entrambe molto addomesticate. Non è però una montagna facile, dalla cima non esiste la discesa comoda e veloce, la quota supera di gran lunga i quattromila metri, la roccia è cattiva e tutte le nuvole prima o poi si incagliano su questo enorme scoglio.
La nostra cresta, delle quattro, è considerata la più difficile (ma non la più bella) e la meno frequentata.
Passiamo la notte al bivacco Bossi, un cubo di latta sporco e umido, la sveglia suona alle tre e mezza ma partiamo solo alle cinque a causa del forte vento; ancora al buio superiamo il camino bagnato che porta alla base dei novecento metri di sfasciumi (e non scherzo) che ci separano dalla scalata vera e propria. La testa del Cervino si infiamma e noi procediamo cercando di rimanere sui blocchi più grossi e stabili. Siamo a circa centocinquanta metri dalla Spalla di Furggen e fino ad ora tutto è andato bene, di colpo però iniziamo ad essere bersagliati da pezzi di roccia e ghiaccio che piombano giù senza sosta e senza schema, per qualche minuto siamo incapaci di reagire poi capiamo che la via è quella giusta (non ci siamo spostati troppo sulla est, famosa per le sue tremende scariche) e che per forza dobbiamo attraversare questo tratto. Passiamo velocemente tutte le possibilità: la conserva che fino ad ora abbiamo utilizzato la scartiamo subito, saremmo solo un bersaglio più facile da colpire, slegarsi sarebbe un'idea ma non ce la sentiamo, ci decidiamo allora per i tiri cercando di passare il più rapidi possibili nelle zone esposte e di sostare in punti riparati. Non è facile, il terreno è ostile. Con non pochi spaventi però riusciamo a portaci al sicuro ma dobbiamo salire ancora due lunghezze su roccia schifosa e fango ghiacciato. Siamo finalmente sulla crestina nevosa della spalla, qui iniziano i tiri duri e da qui il tempo inizia a peggiorare sensibilmente, anticipando di parecchio le previsioni.
Tutta la zona delle scariche ci ha fatto perdere molto tempo ora però anche se il terreno è difficile, la via è abbastanza logica e la roccia migliora un po'. Scaliamo il diedro poi ci portiamo di nuovo sulla est e affrontiamo il muro fessurato che troviamo in parte ghiacciato, il passaggio che dovrebbe riportarci in cresta è totalmente intasato di ghiaccio, sono solo venti metri ma sono davvero impraticabili. Raggiungiamo la placca che tutte le relazioni dicono di evitare, esitiamo, non vediamo oltre e non abbondiamo di materiale, il meteo fa le bizze e ormai è abbastanza tardi. Scendere è una possibilità che qui non esiste... forse fino alla Spalla e poi in qualche modo raggiungere e percorrere tutta la cengia che taglia la parete est fino alla cresta dell'Hornli. Esporsi per tutto quel tempo alle scariche sarebbe da pazzi, lasciamo questa possibilità come ultima carta da giocare.
Chiamiamo il 118, risponde la Svizzera (per fortuna me la cavo con il tedesco) e spieghiamo la nostra situazione. Parte subito un tentativo ma la nostra posizione è sfavorevole e la nebbia si fa sempre più fitta. Per due ore rimaniamo fermi ad osservare l'elicottero che fa su e giù, ci gira attorno ma non riesce a raggiungerci. Riusciamo ad ottenere però un'importante informazione, sopra la placca c'è una specie di cengia che dovrebbe farci raggiungere la cresta e quindi la via giusta.
L'unica cosa che possiamo fare è provare a salire.
Salgo, la scalata è difficile, sosto in una fessura sabbiosa, la cengia è dieci metri alla mia sinistra, una liscia placca ancora ci separa. Recupero i compagni e intanto scruto la parete alla ricerca del passaggio "chiave". Mai più di adesso mi è chiaro il significato di passaggio chiave. Qualche metro più su scovo una fessurina, piazzando un friend dovrebbe essere possibile pendolare e raggiungere la cengia.
Tutto funziona, metto piede sulla cengia e la percorro per la sua intera lunghezza fino alla cresta, qui mi ricollego alla via, siamo sotto al Naso di Furggen!
Il meteo però continua ad impedire il soccorso e noi non possiamo fare altro che continuare a salire.
Le due ore fermi ci hanno stancato, il nevischio rende scivolosa la roccia e la nebbia ci disorienta. Anche mentalmente iniziamo ad accusare, è dalla zona delle scariche che non molliamo un attimo.
Superiamo il Naso e grazie al maltempo non percepiamo il grande vuoto creato dalla parete Sud che in questo punto precipita per più di mille metri. Ora le grandi difficoltà sono passate ma ancora parecchio terreno infido ci separa dalla vetta, la nebbia è sempre più fitta, il buio arriverà a breve e nelle nostre teste si concretizza (contro la nostra volontà) l'idea di un bivacco d'emergenza...
Continuo fino all'arrivo del buio poi quando non vedo più niente accendo la frontale ma è solo peggio, la luce che filtra nella nebbia mi fa vedere ancora meno. Non sappiamo dov'è la cima e anche dovessimo raggiungerla, la discesa in queste condizioni sarebbe davvero un grosso rischio. Siamo esausti, creiamo una piccola piazzuola dove sederci stretti uno all'altro, il tempo di finire il lavoro ed ecco che tutto il cielo si schiarisce e si vedono le stelle... Potremmo proseguire ora che la visibilità è migliore ma ormai siamo seduti e sopratutto è la testa a voler riposare.
Riposare non è però la parola giusta, né per la mente, né per il corpo. Possiamo solo cambiare canale nella nostra testa impostando la funzione resistenza e sistemare i nostri culi il più vicino possibile in modo da tenerci caldo l'un l'altro, non è questo il momento di fare gli schizzinosi.
Nove ore di buio, freddo e vento a quattromila quattrocento cinquanta metri ci attendono.
"E ora cosa facciamo? Ora soffriamo."
Appena viene luce dovrebbero venirci a prendere.
Ci spostiamo da una chiappa all'altra, battiamo le mani e muoviamo le gambe, non riusciamo a cantare o urlare, ci abbracciamo.
Arrivano le dieci poi le undici poi mezzanotte poi l'una poi le due poi le tre poi le quattro. Prima di arrivare alle cinque sembra che ripassino di nuovo tutte le ore... Aspettare le sei è una questione che diventa personale. Alle sei e trenta sorge il sole ma nel cielo limpido l'unica nuvola è proprio lì, a coprire il nostro desiderio di tutta la notte. Che beffa!
Però il meteo è buono e i soccorsi arrivano e ci portano giù.
Prendiamo il volo tutti e tre insieme e subito vediamo dove abbiamo dormito: venti metri sotto la cima!
E' incredibile, la sera prima non ci siamo accorti di niente e neanche la mattina abbiamo avuto la lucidità di alzare lo sguardo, il freddo ci deve avere davvero rintronati.
Voliamo, il Cervino ridiventa rosso come la mattina passata, noi ci abbracciamo ancora.
Avremmo potuto non fidarci del meteo e rimandare?
Avremmo potuto partire in due invece che in tre?
Avremmo potuto aspettare condizioni della cresta migliori?
Avremmo potuto scendere al buio?
Avremmo potuto portarci dietro il materiale da bivacco?
Avremmo potuto darci una bella svegliata la mattina, stringere i denti ancora e scendere con le nostre gambe?
Avremmo potuto fare un sacco di altre cose ma non le abbiamo fatte.
Voglio ringraziare i miei due compagni di corda, è stata un'esperienza umana estrema per quanto mi riguarda.
Voglio ringraziare assolutamente gli uomini del soccorso, persone incredibili, coraggiosi, forti e sopratutto preparatissimi e professionali.
Voglio ringraziare Walter Bonatti perché durante tutta questa vicenda hanno risuonato nella mia testa le sue parole: "Per salvarci dobbiamo rimanere calmi."
E poi voglio ringraziare Mark Twight che attraverso i suoi scritti mi ha insegnato a soffrire.
Avrei potuto anche scattare qualche foto del bivacco o dell'elicottero ma non l'ho fatto. Forse perché avevo le mani gelide o forse per egoismo inconscio, per tenere solo per me quei momenti così forti.
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